In quel tempo, Gesù disse ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò. Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono. Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero. Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli? ». Gli rispondono: «Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri? Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.» Udite queste parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro e cercavano di catturarlo. Ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta.Vangelo di Matteo, 21,33-43.45-46
Vincenzo Baldini spesso prima di approcciarsi ad un nuovo lavoro trova delle frasi che lo indirizzano nella narrazione. Nel caso dello studio sui pazienti del manicomio di San Servolo, la frase che gli rimase impressa nella mente e che gli ha dato l’ispirazione è stata un estratto del passaggio del Vangelo di Matteo che abbiamo riportato: “La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo”.
Scorrere i Testi Sacri di una religione e avere la pretesa di dare una lettura univoca è un lavoro degno forse delle menti più lucide e fredde, quelle degli studiosi. Noi, in una posizione di tangenza rispetto alla materia, possiamo però trovare delle risposte alle nostre domande, possiamo caricare di significati parole che forse dovrebbero essere prese per quello che sono e lasciarci guidare. Infatti in teologia, come in storia dell’arte, si parla di interpretazione. Una mostra d’arte diventa a sua volta un’opera a sé stante e proprio per questo si creano dei significati che non si potrebbero ricercare nella singolarità del quadro. Il lavoro d’interpretazione quindi non è mai facile, ma diventa ancora più impossibile se decontestualizzato.
In questa mostra/installazione è molto complicato, soprattutto se consideriamo il terreno estremamente scivoloso in cui opera: sono argomenti ormai lontani da noi, perché sono passati più di quarant’anni dalla Legge Basaglia e quasi 100 dal più famoso utilizzo del travestitismo in arte contemporanea – Rrose Selavy, Marcel Duchamp, 1921.
Ma come le pietre scartate dai costruttori sono diventate testate d’angolo, così dopo una notte lunga secoli, la nostra mente è stata lavata, e viviamo in un momento in cui sempre più spesso né le persone malate di mente, né le persone che praticano il travestitismo sono nascoste o relegate ai margini della società.
Parliamo di storia: l’atto di mettersi nei panni dell’altro sesso non è di certo una prerogativa contemporanea, pensiamo solo al fatto che nell’antica drammaturgia il travestitismo era prassi, perché le donne non avevano diritto a salire sul palcoscenico e quindi anche i ruoli femminili venivano interpretati da uomini. È evidente allora che stiamo parlando di un fatto sedimentato nella nostra cultura, un esempio quotidiano si può vedere nella moda femminile che è ricca di indumenti considerati “maschili”. Per quanto riguarda invece la malattia mentale, di psichiatria si inizia a parlare nel XIX secolo, prima ci si poteva riferire alla malattia come isteria, clorosi, possessione demoniaca, ma nonostante la maggiore consapevolezza contemporanea, anche le psicosi/nevrosi in arte sono state ampiamente raffigurate in passato e un’analisi interessantissima è quella fatta da Chiara Tartarini ne Il pennello di Cupido.
L’autore, Vincenzo Baldini, ha deciso in due momenti differenti della sua vita di uscire dal suo modus abituale di lavoro, sia dal punto di vista della genesi dell’opera, che da quello tematico, per approdare ai due progetti che vedete esposti.
Nel 2010 nasce il primo dei due studi: una serie di dipinti raffiguranti delle drag queens e dei pugili (non esposti). Se si conosce il lavoro di Baldini si sa che generalmente nelle sue opere il colore non ha una funzione attiva, piuttosto invece padroneggiano le tinte tenui e le gradazioni del grigio. Questa volta invece vediamo toni brillanti, attivi, che vengono in aiuto alla delineazione di scenari all’insegna dell’edonismo. Inoltre i suoi lavori non partono mai da delle immagini reali, ma dalla ricerca di indizi nella superficie delle sue opere in fase embrionale. Questo progetto al contrario parte da delle fotografie fatte dallo stesso artista al Cassero di Bologna durante la preparazione delle drag alla serata. Quindi oltre alla diversa cronologia della narrazione, che solitamente è composta da un’unica scena, sulla tela compare anche un altro fattore di novità ad attirare la nostra attenzione: il colore, il cui utilizzo attivo viene a rendere ancora più vivi e passionali i soggetti descritti. Queste tonalità generalmente sconosciute al mondo di Baldini sono il vero prestito del mondo Queer.
Anche la serie I dimenticati parte da un prestito, in particolare offerto dagli archivi del Museo dell’ex manicomio di San Servolo (Venezia), da cui arrivano le fotografie, e dell’ex manicomio di Volterra che in particolare ha raggruppato le lettere dei pazienti in una raccolta intitolata Corrispondenza negata. Epistolario dalla nave dei folli. Baldini è riuscito a recuperare le lettere e le fotografie usate come soggetti nella serie del 2012. Qui torniamo invece a vedere delle operazioni più vicine al modo di fare dell’artista. Le tinte sono chiaramente spente, più adatte alla passività dei soggetti. Il dramma di non avere scelta davanti alla decisione di terzi della propria abilità a vivere è reso attraverso non solo i colori spenti, ma anche dalla quantità di materia utilizzata. Ma sarebbe riduttivo oltre che puro patetismo non notare la sensibilità della scelta dei soggetti: persone dimenticate, abbandonate, private della loro personalità che riacquistano senso di sé e di vita grazie all’azione di ri-narrazione delle loro storie operato da Baldini.