L’emancipazione femminile attraverso l’arte del drag: la ricerca visiva di Isaac Flores.
Nei paesi cattolici come il nostro, completamente devoti al culto mariano a cui è assoggettata di conseguenza l’immagine della donna, non rispondere a determinate aspettative non è solo un gesto ribelle. È addirittura un qualcosa di più atavico: è una rottura con la tradizione, è un continuo farsi domande senza trovare risposte. Anche nell’ultimo anno abbiamo assistito a degli attacchi da parte delle cosiddette femministe radicali trans-escludenti alla libertà d’immagine e di espressione, ma sono state pallottole bruciate. Non era già più tempo di cercare di mettere tutto in un semplice contenitore o di etichettare quando Bauman ci parlava di “società liquida” alla fine degli anni novanta e portare avanti questo tipo di narrativa, per cui una cosa o è bianca o è nera, non fa altro che alimentare un sistema da cui nessuno può trarre guadagno, a partire dalle stesse persone che ne fanno parte.
Giocare con i costrutti sociali nei quali siamo costantemente inseriti è la prerogativa dell’arte di fare Drag che invece è spesso fraintesa, perché limitata all’imitazione dello stereotipo del femminile. In Italia viene anche criticata perché è vista come una ridicolizzazione della figura della donna che come abbiamo detto prima è legata all’immagine della Vergine e allo stesso tempo come indebolimento della virilità maschile, quando altro non è che un atto liberatorio, una performance, una distruzione dei costrutti sociali nei quali siamo costantemente inseriti, che tutte e tutti pratichiamo inconsciamente ogni giorno.
Da questo prende avvio la ricerca di un giovane fotografo di Barcellona, Isaac Flores. Cresciuto in un quartiere periferico della capitale catalana, l’Hospitalet, in una famiglia della classe operaia, si è avvicinato alla fotografia da giovanissimo per poi farne un lavoro. Nel suo primo libro d’artista del 2017 si dedica al ritratto di una città morente, fagocitata dalla società capitalista, dal turismo di massa, una Barcellona schiacciata in cui i semi della resistenza fioriscono con radici ancora più profonde nella difesa del proprio posto nella città.
In Barcelona Se Muere, Flores ci racconta la Barcellona radicale, quella della comunità LGBT+ politicamente impegnata, che lotta per il proprio diritto di esistenza e per il la rivendicazione degli spazi dove vivere la propria vita comunitaria. Uno di questi è il pub Ocaña, intitolato al pittore e attivista José Pérez Ocaña, che spesso fa da sfondo alle fotografie di Flores e un vero punto di riferimento per molte drag attiviste e membri della comunità. Uno spazio nel centro di Barcellona a due passi da uno dei simboli del turismo della città, dove vanno a braccetto edonismo e rivendicazioni politiche.
Nelle fotografie di Isaac Flores si respira proprio quest’aria di libertà e d’introspezione. Anche quando entrano a far parte della sua ricerca tematiche più edoniste, non sono mai fini a loro stesse, ma c’è sempre in sottofondo la tensione verso un punto più alto, verso un collettivo benessere. Un’opera che fa da esempio perfetto in questo caso è La Fernanda y El Sumiso.
Qui il fotografo va a riprendere una composizione triangolare cara alla tradizione iconografica cristiana e la rielabora a tal punto da sovvertirne il messaggio: il maschile decide comunque di farsi carico del dolore, di sacrificarsi, ma non è più tenuto il braccio in maniera pietistica dal femminile. La figura femminile si siede sopra di lui, sfrutta il suo sacrificio per godere del suo un nuovo status, non più di costola, ma di individuo assoluto e questo è rimarcato dal dualismo della figura di Fernanda, che sappiamo essere attrice in quel momento, ma che ci spinge alla catarsi, a cercare nella nostra storia personale il modo per assolverci dal nostro ruolo.
Anche le scene di vita quotidiana e soprattutto i ritratti lasciano lo spettatore con una sola domanda: “chi sono?”.
Chi sono i soggetti rappresentati, qual è la loro storia, come posso descriverli, ma anche e soprattutto chi sono io che sto guardando queste foto e come mi colloco in questo mondo fluido. La risposta è già nel dubbio che rimane dopo l’osservazione, ma se non fosse abbastanza, possiamo sempre ricorrere alle parole di Ocaña:
“Me preguntan si soy un travestí. No soy un travestí,
soy un teatro y mi escenario es la Rambla…”
L’articolo è stato pubblicato sul numero di marzo della rivista Graphie.